Cosa ne è dunque di questa mediazione che solo il linguaggio (quello cinematografico, ma anche ogni altro linguaggio, altro non è infatti che mediazione) riesce a garantire, quando si arriva al 3D? L’uso volontariamente errato della tecnologia, che Godard sperimenta in Adieu au langage, ne mettono in luce, radicalizzandola, la possibilità di decostruire l’intero sistema linguistico che il cinema ha edificato progressivamente nel corso della sua storia. Le due immagini sovrapposte che costituiscono un’immagine in tre dimensioni vengono scomposte, con una forzatura nell’uso della tecnologia, e in molti casi non più ricomposte. Il risultato ha, con ogni evidenza, un effetto straniante sullo spettatore che, dopo aver perso ormai da tempo il filo rosso della narrazione, perde qui anche l’unità di uno sguardo che, solo in quanto illusorio (l’immagine-movimento, come noto, non esiste se non per un’operazione retinica di compensazione che trasforma la semplice successione di fotogrammi in un flusso continuo di immagini) può restituire una percezione il quanto più prossima alla realtà.
Ciò a cui assistiamo in Adieu au langage è la fine di ogni conciliazione, dunque anche la fine di ogni linguaggio (cinematografico, ma non solo) e quello di Godard altro non sembra che un ultimo (?), definitivo (?) congedo dal cinema stesso, da sé, dal mondo. Il 3D, letto in questa prospettiva, pare infatti collocare il cinema e il suo possibile futuro sviluppo al di qua dell’antico bivio: essere macchina immaginativa o strumento di ri(presa) della realtà. Così facendo Godard vede nel 3D una strada per il ritorno al cinema delle origini.